La Cina che fa? [giorno 3]

Mentre alcune potenze straniere chiariscono il loro posizionamento, la Cina fa veto ad una risoluzione di condanna del Consiglio di Sicurezza delle NU. Non si sa esattamente cosa stia pensando la Cina, ma si discute di come abbia gestito le sue relazioni negli ultimi anni.

A Yangon prende piede il movimento di disobbedienza civile. Leggiamo e vediamo immagini del personale medico che nell’ospedale centrale ed in “decine” di altri ospedali ha incrociato le braccia (scenari danteschi di una pandemia durante…).

Anche nel nostro piccolo, quartiere defilato e residenziale, all’incrocio di due piccole stradine “chiuse” che terminano entrambe su due monasteri, allo scoccare delle 20 sentiamo crescere la guerra delle padelle – per una decina di minuti. Fa molta impressione.

Scadono stanotte le “72 ore” che per alcuni indicavano la tregua: quanto puo’ andare lunga l’onda della disobbedienza civile? Si viene a sapere che ASSK e’ stata incriminata con 11 capi di imputazione, tra cui “alto tradimento”.

Nella giornata di oggi il Kyat perde il 10%. Io e Alessandro ci spendiamo i 20,000 Kyat svalutati dal solito barbiere, che a tapparelle chiuse continua a lavorare. Ci dice: “ma kaun bu.”

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Silenzio [giorno 2]

La prima giornata è stata una raffica di comunicati esecutivi, abbastanza puntuali. A circa 12 ore dall’inizio delle operazioni c’era già la lista pressoché completa dei nuovi ministri e vice ministri, militari.

Si pensa che Il resto della funzione pubblica, per cariche di livello meno politico e più tecnico, rimanga invariata. Il che fa pensare ad alcuni che, volendo, si possa continuare a lavorare come se niente fosse.

Del secondo giorno mi segno questa sensazione di volubile normalità, surreale: gli uccelli che smettono di colpo di cantare, ti fermi un attimo e guardi intorno.

Tante “voci” ma nessuna conferma: le banche hanno riaperto; l’aeroporto riapre il 4; alcuni parlamentari sono stati liberati; coprifuoco notturno dalle 20 alle 6.

In questa incertezza, ci prepariamo al terzo giorno. Un po’ chiedendoci dove sono Aung San Suu Kyi ed i membri del suo governo; un po’ cercando di decifrare cosa comporti la disobbedienza civile.

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Non c’è rete [giorno 1]

Siamo rientrati in Myanmar il 17, ma siamo rimasti in hotel fino a ieri, in quarantena, a Yangon. Due volte negativi, siamo quindi tornati a casa, dopo ormai 90 giorni! Tutto a posto anche la gatta. Prima di andare a letto controllo alcune email di lavoro, ce n’era una urgente, ma dico “ma si dai, prima cosa domattina.”

Sveglia alle 7 e preparo la colazione. Non ho pagato la bolletta e non c’è wi-fi. Alle 8 i bambini cominciano le lezioni – accidenti. Facciamo hotspot col telefonino, a Karina non funziona e nemmeno a me. Perché?

Alle 9 arriva Myo Myo, e ci dice quello che sa. Con molta tranquillità, le smorfie le facciamo solo noi, lei pacifica. Entra in casa e, dopo 90 giorni, viene assalita dalla felicità dei bambini.

È cominciata cosi e fino alle 5 non abbiamo saputo altro. Siamo usciti per comprare da mangiare – in casa non c’era niente, neanche per la gatta. Dalle 17, si sono ricollegati i telefonini e abbiamo cominciato a capire cosa sta succedendo.

Quindi stiamo bene, ringraziamo tutti per l’affetto dimostrato! Il nostro pensiero va unicamente a tutti gli amici, colleghi e persone per bene di questo Paese – siamo con voi!

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Green is the Color (May 29, 2018)

Green is the color, sang the Pink Floyd in 1969. Though they were singing about Ibiza, the song has been in my head since I firstly landed in Myanmar, months ago. Green is just everywhere in Myanmar: from rice fields, to hundred-year-old trees, to jade artifacts. Jade is everywhere because Myanmar is the world largest producer of jade.

But this post is not about minerals. For the ones of us that have been looking into Domestic Resource Mobilization, and options to scale-up SDGs-targeted financing, jade has quickly become associated to the green of dollars. In Myanmar, jade is one possible contextualization of what is elsewhere referred to, more generally, as extractive industry. But it’s not just extractive industries here: it’s jade.

Jade means that the main market for trade is China, where the stone is highly-valued and traditionally associated with royalty. Secondly, it’s about its origin, which is Kachin State, a northern province, where the world’s richest jade mines are located. Kachin is located on China’s southern border. Most of the revenues flow off-budget from buyers to private companies, with scant re-investment through governmental budgets, or to local communities.

The Natural Resource Governance Institute (NRGI), a think-tank, has recently published an on-line database on jade production, sale and the associated revenue flows: http://openjadedata.org/index.html.

The report admits that valuing Myanmar’s jade industry remains a challenge. Its estimated total value in 2014 ranged from $31b, or 50% of the country’s GDP (Global Witness, 2015); to Myanmar’s first EITI (Extractive Industries Transparency Initiative) reporting on the officially traded jade, of $1.5b (EITI, 2015). A more recent estimate of the total value suggests it would be worth $6.5b.

90% of the licenses to operators are issued for Myanmar’s Kachin State. Myanmar’s Kachin is home to one of the longest and less visible conflict, which is often explained as an ethnic conflict between Myanmar’s army and the mostly Christian minority, which represents the majority of the population in the province. Unsurprisingly, it is also associated to the control of the mining areas: as the Guardian recently reported, fighting erupted in the amber-rich Tanai region, and near the jade mines of Hpakant.

If green is the color of hope, no doubt the country’s future will need to count on jade.

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H&M in Myanmar

Siamo purtroppo abituati a leggere delle condizioni di lavoro degli operai delle fabbriche tessili in Asia, subcontrattate dai marchi occidentali per la produzione di T-shirt, scarpe, e spesso anche abbigliamento di lusso. Ormai 20 anni fa, Naomi Klein dedicava un libro ai meccanismi economici che hanno spinto verso questa divisione del lavoro, ed alle conseguenze sulle condizioni di vita nelle societá emergenti. L’episodio del Rana Plaza di Savar, in Bangladesh, é dell’Aprile 2013: nonostante le crepe strutturali e gli avvisi per evitare di utilizzare l’edificio, i proprietari delle fabbriche tessili ospitate ai piani alti – dove lavoravano circa 5.000 persone per 28 diverse marche d’abbigliamento – obbligarono gli operai a recarsi regolarmente al lavoro. L’edificio crollo’ la mattina successiva facendo 1.129 morti e 2.515 feriti. Penso al Rana Plaza ogni volta che leggo “made in Bangladesh”.

H&M Myanmar

Non é immediato, per un cliente qualsiasi, il collegamento tra i luoghi di produzione ed i negozi dove i capi vengono acquistati. Non é immediato, ma non c’é bisogno di leggere Naomi Klein per immaginare che per poter stabilire il prezzo di un capo d’abbigliamento a 4,99 euro, da qualche parte di deve pur risparmiare. Ed i meccanismi che permettono i risparmi piu consistenti sono racchiusi nei contratti che i marchi occidentali sottoscrivono con le fabbriche tessili locali. A queste ultime vengono delegate le responsabilitá sulle condizioni di lavoro: diritti dei lavoratori, orari di lavoro, lavoro minorile, giusta paga, condizioni di rischio ambientale e sanitario, sicurezza sul lavoro… qui, non é difficile trovare un posto, generalmente un quartiere periurbano di una cittá in via di sviluppo, dove la necessitá di lavorare porta chiunque ad accettare qualsiasi cosa, in una lotta al ribasso tra lavoratori ugualmente non qualificati. La produzione tessile si sta muovendo sul Myanmar perche’ il costo del lavoro si aggira sui 63 dollari a settimana, ormai meno di Vietnam e Cambogia (90 e 145 dollari, fonte Reuters).

Ma con questo terzo paragrafo, questa volta, vorrei raccontare una storia diversa. Ho assistito ad una presentazione di H&M – al momento il secondo rivenditore di abbigliamento al mondo – a seguito del recente avvio delle attivita’ legate alla produzione in Myanmar, ed alla collaborazione tra la Fondazione H&M e UNICEF per il sostegno alle attivitá pre-scolastiche nel paese. Lo dice H&M sul suo sito: “il gruppo H&M non possiede nessuna fabbrica. I nostri prodotti sono fatti da produttori indipendenti, spesso in paesi in via di sviluppo. Sarebbe per noi impossibile lavorare, se non ci prendessimo la responsabilita per come le persone che lavorano per i nostri fornitori sono trattate. Ciascuno dovrebbe essere trattato con rispetto e dovrebbe offrire ai suoi lavoratori salari giusti e condizioni di lavoro dignitose (la traduzione é mia)”. Sono parole di senso assolutamente comune, ma che hanno un certo peso, considerando cio’ a cui siamo abituati. In Myanmar, H&M lavora con circa 40 fabbriche tessili, la maggior parte delle quali sono concentrate nei quartieri industriali periferici della cittá di Yangon. Ed ha incaricato una societa di monitorare le condizioni di lavoro nelle fabbriche sub contrattate ed introdurre graduali migioramenti: uno degli ultimi in ordine di tempo riguarda l’eliminazione di prodotti chimici lesivi della salute umana dalla fase di produzione.

MYANMAR-YANGON-FOREIGN INVESTMENTNon si tratta di un punto d’arrivo. Nel marzo di quest’anno, una protesta e’ degenerata nella distruzione di una fabbrica di abbigliamento cinese, con stabilimento in Myanmar, che lavorava con H&M. Quest’ultima ha subito sospeso le forniture in attesa di chiarire le ragioni dello scontro; ma e’ evidente che qualcosa ancora non funziona, nel monitoraggio delle condizioni di lavoro.

Ma prendiamo questa iniziativa semplicemente per quello che e’: un segnale diversamente positivo, una risposta attiva agli squilibri creati dalla globalizzazione. E cominciamo ad accettare che questo ci possa costare qualcosa, nelle giornate di shopping natalizio.

(Immagini non mie e coperte da copyrights: https://fashionunited.uk/news/fashion/child-labour-low-wages-the-real-cost-of-producing-fashion-in-myanmar/2017020623421; https://www.portugaltextil.com/trabalhadores-destroem-fabrica-da-hm/)

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20 Anni Dopo Il Rwanda

Mi preparo a visitare il Ruanda, a 20 anni dal genocidio.Valle

Avevo 15 anni nel 1994, vivevo ad Esenta. I ricordi di quei giorni sono nitidi: un pomeriggio al campetto di calcio, nel mezzo del paese; una bella giornata di primavera, ancora fresca; infine il bar, per reidratarsi prima di rientrare a casa. La televisione nel seminterrato della Campagnola passava il telegiornale del pomeriggio. Castoro, in parte a me, sbiancava all’annuncio della morte del leader dei Nirvana, Kurt Cobain. Poco dopo, lo stesso telegiornale annunciava, in ultim’ora, che l’aereo su cui viaggiava il presidente del Ruanda Habyarimana era stato abbattuto da un missile, mentre atterrava a Kigali.

Era il 6 Aprile 1994, e quell’evento avrebbe dato inizio al genocidio. Da qui in poi, i ricordi diventano più confusi. Gli aggiornamenti vengono dati saltuariamente, dai principali telegiornali. Le stesse informazioni non sempre sono chiare. Ricordo che la cosa veniva affrontata come una escalation di violenza, qualcosa di preesistente, tutto sommato prevedibile. Ho memoria di qualche immagine delle colline di Kigali, una chiesa piena di morti, poi il responsabile dell’UNAMIR col suo berretto blu… mi restano i messaggi-chiave dell’informazione giornalistica: Tutsi e Hutu, gli scarafaggi, i machete; e poi i profughi. Non ricordo di aver avuto l’impressione che stesse succedendo quello che sarebbe successo: ed invece, le stime ufficiali indicano che in un periodo di 100 giorni morirono 800.000 dei 7.000.000 di abitanti. In ognuno di quei 100 giorni, furono uccise circa 8.000 persone.

Banana shopLa mia prima passeggiata a Kigali, la capitale, é costruita in continuità con quelle immagini, e mi porta dall’hotel al memoriale del genocidio. Il museo é ospitato in un bell’edificio sul versante di una collina, e fa uso di angusti spazi chiusi, e solari giardini terrazzati all’aperto. Tra le cose più interessanti, mi rimane l’interpretazione delle cause scatenanti del genocidio.
Si dice che sul territorio del Ruanda vivessero in origine 14 clan, che convivevano in maniera tutto sommato pacifica. Con l’arrivo dei tedeschi nel 1884, ad ogni individuo cominciò ad essere associata la tribù di appartenenza. Le tribù – Tutsi, Hutu e Twa – venivano identificate sulla base di caratteristiche economiche, prima che di tratti somatici: veniva dichiarato Tutsi chi possedeva più di 10 vacche. In effetti, la logica tedesca prevedeva la possibilità di una transizione da una tribù all’altra, in caso di arricchimento o impoverimento. I capi di bestiame, in Africa, hanno storicamente rappresentato una forma di investimento, quindi un simbolo di ricchezza capitale. Da quel momento l’appartenenza tribale viene costantemente associata alla persona. L’approccio non cambia con la colonizzazione del Belgio, durante la prima guerra mondiale; quando anzi si decide di indicare l’appartenenza tribale sulla carta d’identità (1932). In questa separazione fittizia risiede, secondo la logica espressa nel museo, la radice del genocidio ruandese.

Ma visitare un luogo, o tornare a vederlo, aiuta anche ad aggiustare la mira. Se quelle immagini e tutto il resto mi hanno accompagnato quasi immutate per più di 20 anni, mi sorprendo nel rendermi conto di quanto velocemente svaniscano, non appena mi confronto con la quotidianità.

Per chi arriva da altre città d’Africa, Kigali mette abbastanza in soggezione. E’ vero che KN1 and KN6resistono certi tratti caratterizzanti di molte realtà africane – su tutti, le facciate degli edifici commerciali che riproducono all’infinito gli stessi colori, gli stessi loghi delle stesse multinazionali – ma le eccezioni sono preponderanti. I moto-taxi, che monopolizzano il trasporto locale di corto raggio, sostano in maniera ordinata, guidano con ragionevole diligenza, indossano un casco protettivo e dispongono sempre di un secondo casco per il passeggero. Una coppia di poliziotti sosta ad ogni incrocio per verificare il rispetto del codice della strada, ed eventualmente interviene per facilitare il traffico. In una rotonda tra KN1 e KN6, mi sorprendono le toilette e bagni pubblici, frequentati e puliti. La rotonda dispone di spazi pedonali, dai quali si gode di un bellissimo scorcio sulla collina centrale di Kigali, con i nuovissimi edifici in costruzione. Non si tarda a sbalordirsi di quanto la città sia pulita. I marciapiedi e le strade innanzitutto, le zone commerciali, gli accessi alle case: pulitissimo. Non c’é traccia, neanche a cercarli, dei sacchetti di plastica nera, tanto diffusi altrove in Africa, che rendono il cielo butterato. Più tardi, scopro che c’é qualcosa di più delle sensazioni positive che ho appena provato. All’Hotel des Milles Collines, mi vedo con i colleghi residenti in Ruanda. L’occasione é uno scambio sui risultati raggiunti nella sanità pubblica, nei paesi dove stiamo lavorando. Mi confermano che i risultati raggiunti dal Ruanda nei 20 anni dopo il genocidio sono semplicemente stupefacenti. I principali indicatori dell’OMS lo collocano oggi tra i paesi al mondo che hanno raggiunto risultati migliori, e più velocemente. Nei giorni a venire, avrò occasione di verificare che gli stessi miglioramenti sono avvenuti in altri settori sociali ed economici.

Come si fa a cambiare un paese in 20 anni? Come si fa a portare il tasso di mortalità infantile infantile dai 287 morti ogni 1.000 nati vivi del 1994/5, ai 52 del 2013. Ma anche, come si fa a fare del Ruanda, il paese da cui tutti volevano solo scappare, il paese in cui tutti vogliono investire (1′ paese africano per condizioni per avviare attività imprenditoriali, secondo l’indice Doing Business della Banca Mondiale; il 46′ al mondo)? La ricetta ha per lo meno due ingredienti.

Hopital NembaIl primo, uno sforzo collettivo sovrumano delle parti sociali, compreso lo stato. Innanzitutto, assistenza umanitaria e psicologica, giustizia e tribunali civili, ricostruzione e pianificazione. Poi, strategie e politiche pubbliche, prima per i settori sociali e poi per le attività economiche. Ricostruzione di infrastrutture sociali ed economiche, semplificazione burocratica per attività economiche. Un coordinamento attento a qualche presa di posizione sul sostegno internazionale, Nazioni Unite, vecchi e nuovi finanziatori; con grande apertura al ruolo della Cina. Massima stigmatizzazione della corruzione, un grande sforzo di trasparenza dell’amministrazione pubblica, sempre più decentralizzata e responsabilizzata per i servizi offerti ai cittadini. Va ricordato, il Ruanda é un paese piccolo, grande grosso modo quanto il Piemonte: si può immaginare che le condizioni siano state più favorevoli che in un paese grande e disomogeneo.
Infine, molti altri aspetti che mi sono sconosciuti.

Il secondo, il ruolo e l’impostazione politica del Fronte di Liberazione e soprattutto, dall’attuale presidente Kagame. Ritorna alla mente l’entrata trionfale nella Kigali liberata del Luglio 1994, alla testa dell’esercito ribelle. In quelle condizioni, Kagame ed il suo partito hanno potuto godere di massima libertà di azione, giustificando qualsiasi decisione con lo spettro della recrudescenza dell’odio tribale. In questa prospettiva, é innegabile che la leadership attuale abbia tratti più autoritari che democratici; e che il governo abbia spesso agito da solo. In effetti, si tratta di una situazione in cui ogni scelta é, in qualche modo, un compromesso. All’indomani delle elezioni del 2003, Amnesty International arrivò a parlare di repressione politica da parte dell’RPF. Più tardi, ancora Amnesty International prese posizione sulle leggi approvate per criminalizzare l’apologia del genocidio, indicando che avevano limitato la libertà individuale, ed erano state usate per zittire il dissenso, anche solo la critica al RPF, e la richiesta di giustizia per le sue vittime di guerra. In vari momenti degli ultimi 20 anni, é stata modificata la costituzione, rimossa l’indicazione della tribù dai documenti d’identità; vietato l’uso sacchetti di plastica; introdotto l’inglese come lingua ufficiale. Spesso, dalla sera alla mattina.

Eppure, per chi guarda alle statistiche sociali ed economiche, i risultati sono innegabili. Come il Ruanda, altri paesi in Africa hanno recentemente raggiunto mete importanti in ambito sociale o economico in condizioni non perfettamente democratiche; nemmeno democraticamente partecipative. Sono argomenti non nuovi per la letteratura economica e politica: alcuni stati, indicati come developmental nations, dimostrano che una solida pianificazione, basata su una visione chiara del futuro e strategie coerenti; un investimento pubblico spesso sostenuto, anche in economia; la determinazione di una classe dirigente illuminata, insieme alle capacità ed ai mezzi a disposizione, hanno potuto di più di altri fattori che si ritenevano più importanti, tra i quali un ambiente perfettamente democratico. Per lo meno, nel breve-medio periodo.Memorial

Da 20 anni, ogni anno, il Ruanda celebra la fine del genocidio con 100 giorni di festeggiamenti in tutto il paese. Secondo alcuni, é il momento di finirla: é tempo di digerire il passato e guardare al futuro. Allo stesso modo, aumenteranno le pressioni perché chi ha traghettato il paese fuori dal genocidio si faccia da parte. Probabilmente, questo succederà tanto più tardi, quanto più evidenti saranno le conquiste sociali ed economiche. Ma se e quando questo succederà, la storia incredibile del Ruanda diventerà davvero unica.

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Andando a Far Spesa (30 settembre 2004)

Roteando di giorno tra le vie di Luanda, in macchina tra gli incroci rotondi e le rotonde quadrate, su isole poco pedonabili a zigzagare i pedoni, ritrovi le ondulanti donnine col loro carico di merce varia. Potresti uscirtene di casa, senza scendere da una macchina, anche solo per fare la spesa, sicuro di avere più possibilità che alla COOP di trovare tutto.

Come distinguere chi vende da chi semplicemente passeggia? Dalla posizione delle cose sul corpo dell’ambulante (non certo da quello che tengono in mano visto che ognuno gira per strada con almeno 10 kg di cose): chi vende fa della testa la sua vetrina… tutto è rinchiuso nell’equilibrio delle bacinelle di plastica cinese, e tu con lo sguardo cerchi di riconoscere dalla distanza che cosa puoi trovarci dentro…

Adoro le donne che trasportano frutta: chi vende banane sembra egli stesso un tronco di palma su cui il frutto “ha attaccato”, ed è maturato. Sottoposte a pesi allucinanti quelle che vendono pomodori e quelle che vendono arance; per un pubblico specifico e spesso ferme, quelle che vendono avocado.

Chiaro che non ci si ferma alla frutta. Incredibili quelle che vendono ciabatte, tipo brasiliane infradito havaianas: non riconoscendo il sopra ed il sotto te le immagini camminare anche a testa in giù; quelle che nelle bacinelle ci tengono altre bacinelle ed in queste altre sembrano giocolieri arrivati al NUMERO + DIFFICILE, quello da rullo di tamburi. Ultimamente mi fanno impazzire quelle che vendono cerniere, alle quali sembra sia esplosa la testa intera e quelle che vendono pesce, solo per cercare di capire che pesce è: ci provi ad occhi chiusi dal grido teatrale che emettono ogni 10 passi, proprio di ogni tipo di pesce venduto; o a occhi aperti cercando di distinguere la coda di questo o di quello, o la bocca coi dentini, se li hanno messi in direzione opposta.

Oggi esco in macchina solo per andare a prendere frutta: la mia cuoca mi ha detto che al pesce c’avrebbe pensato lei:

Esco appena sento il grido giusto, lasciami 300 kwanzas”

Bene, allora io penso agli ananas”.

Torno a casa con 1 ananas, 2 papaye, 2 avocado ed un grande cavolo. Colto da raptus, compro anche 4 lampadine, un pallone da calcio ed un pezzo di legno di Cabinda.

Una volta a casa sulla tavola c’è solo l’acqua e la cuoca sembra imbarazzata:

E il pesce?”

Non è passato”.

venditrice di... ?

Pubblicato in Angola 2004-05 | Contrassegnato , , | Lascia un commento