Mi preparo a visitare il Ruanda, a 20 anni dal genocidio.
Avevo 15 anni nel 1994, vivevo ad Esenta. I ricordi di quei giorni sono nitidi: un pomeriggio al campetto di calcio, nel mezzo del paese; una bella giornata di primavera, ancora fresca; infine il bar, per reidratarsi prima di rientrare a casa. La televisione nel seminterrato della Campagnola passava il telegiornale del pomeriggio. Castoro, in parte a me, sbiancava all’annuncio della morte del leader dei Nirvana, Kurt Cobain. Poco dopo, lo stesso telegiornale annunciava, in ultim’ora, che l’aereo su cui viaggiava il presidente del Ruanda Habyarimana era stato abbattuto da un missile, mentre atterrava a Kigali.
Era il 6 Aprile 1994, e quell’evento avrebbe dato inizio al genocidio. Da qui in poi, i ricordi diventano più confusi. Gli aggiornamenti vengono dati saltuariamente, dai principali telegiornali. Le stesse informazioni non sempre sono chiare. Ricordo che la cosa veniva affrontata come una escalation di violenza, qualcosa di preesistente, tutto sommato prevedibile. Ho memoria di qualche immagine delle colline di Kigali, una chiesa piena di morti, poi il responsabile dell’UNAMIR col suo berretto blu… mi restano i messaggi-chiave dell’informazione giornalistica: Tutsi e Hutu, gli scarafaggi, i machete; e poi i profughi. Non ricordo di aver avuto l’impressione che stesse succedendo quello che sarebbe successo: ed invece, le stime ufficiali indicano che in un periodo di 100 giorni morirono 800.000 dei 7.000.000 di abitanti. In ognuno di quei 100 giorni, furono uccise circa 8.000 persone.
La mia prima passeggiata a Kigali, la capitale, é costruita in continuità con quelle immagini, e mi porta dall’hotel al memoriale del genocidio. Il museo é ospitato in un bell’edificio sul versante di una collina, e fa uso di angusti spazi chiusi, e solari giardini terrazzati all’aperto. Tra le cose più interessanti, mi rimane l’interpretazione delle cause scatenanti del genocidio.
Si dice che sul territorio del Ruanda vivessero in origine 14 clan, che convivevano in maniera tutto sommato pacifica. Con l’arrivo dei tedeschi nel 1884, ad ogni individuo cominciò ad essere associata la tribù di appartenenza. Le tribù – Tutsi, Hutu e Twa – venivano identificate sulla base di caratteristiche economiche, prima che di tratti somatici: veniva dichiarato Tutsi chi possedeva più di 10 vacche. In effetti, la logica tedesca prevedeva la possibilità di una transizione da una tribù all’altra, in caso di arricchimento o impoverimento. I capi di bestiame, in Africa, hanno storicamente rappresentato una forma di investimento, quindi un simbolo di ricchezza capitale. Da quel momento l’appartenenza tribale viene costantemente associata alla persona. L’approccio non cambia con la colonizzazione del Belgio, durante la prima guerra mondiale; quando anzi si decide di indicare l’appartenenza tribale sulla carta d’identità (1932). In questa separazione fittizia risiede, secondo la logica espressa nel museo, la radice del genocidio ruandese.
Ma visitare un luogo, o tornare a vederlo, aiuta anche ad aggiustare la mira. Se quelle immagini e tutto il resto mi hanno accompagnato quasi immutate per più di 20 anni, mi sorprendo nel rendermi conto di quanto velocemente svaniscano, non appena mi confronto con la quotidianità.
Per chi arriva da altre città d’Africa, Kigali mette abbastanza in soggezione. E’ vero che resistono certi tratti caratterizzanti di molte realtà africane – su tutti, le facciate degli edifici commerciali che riproducono all’infinito gli stessi colori, gli stessi loghi delle stesse multinazionali – ma le eccezioni sono preponderanti. I moto-taxi, che monopolizzano il trasporto locale di corto raggio, sostano in maniera ordinata, guidano con ragionevole diligenza, indossano un casco protettivo e dispongono sempre di un secondo casco per il passeggero. Una coppia di poliziotti sosta ad ogni incrocio per verificare il rispetto del codice della strada, ed eventualmente interviene per facilitare il traffico. In una rotonda tra KN1 e KN6, mi sorprendono le toilette e bagni pubblici, frequentati e puliti. La rotonda dispone di spazi pedonali, dai quali si gode di un bellissimo scorcio sulla collina centrale di Kigali, con i nuovissimi edifici in costruzione. Non si tarda a sbalordirsi di quanto la città sia pulita. I marciapiedi e le strade innanzitutto, le zone commerciali, gli accessi alle case: pulitissimo. Non c’é traccia, neanche a cercarli, dei sacchetti di plastica nera, tanto diffusi altrove in Africa, che rendono il cielo butterato. Più tardi, scopro che c’é qualcosa di più delle sensazioni positive che ho appena provato. All’Hotel des Milles Collines, mi vedo con i colleghi residenti in Ruanda. L’occasione é uno scambio sui risultati raggiunti nella sanità pubblica, nei paesi dove stiamo lavorando. Mi confermano che i risultati raggiunti dal Ruanda nei 20 anni dopo il genocidio sono semplicemente stupefacenti. I principali indicatori dell’OMS lo collocano oggi tra i paesi al mondo che hanno raggiunto risultati migliori, e più velocemente. Nei giorni a venire, avrò occasione di verificare che gli stessi miglioramenti sono avvenuti in altri settori sociali ed economici.
Come si fa a cambiare un paese in 20 anni? Come si fa a portare il tasso di mortalità infantile infantile dai 287 morti ogni 1.000 nati vivi del 1994/5, ai 52 del 2013. Ma anche, come si fa a fare del Ruanda, il paese da cui tutti volevano solo scappare, il paese in cui tutti vogliono investire (1′ paese africano per condizioni per avviare attività imprenditoriali, secondo l’indice Doing Business della Banca Mondiale; il 46′ al mondo)? La ricetta ha per lo meno due ingredienti.
Il primo, uno sforzo collettivo sovrumano delle parti sociali, compreso lo stato. Innanzitutto, assistenza umanitaria e psicologica, giustizia e tribunali civili, ricostruzione e pianificazione. Poi, strategie e politiche pubbliche, prima per i settori sociali e poi per le attività economiche. Ricostruzione di infrastrutture sociali ed economiche, semplificazione burocratica per attività economiche. Un coordinamento attento a qualche presa di posizione sul sostegno internazionale, Nazioni Unite, vecchi e nuovi finanziatori; con grande apertura al ruolo della Cina. Massima stigmatizzazione della corruzione, un grande sforzo di trasparenza dell’amministrazione pubblica, sempre più decentralizzata e responsabilizzata per i servizi offerti ai cittadini. Va ricordato, il Ruanda é un paese piccolo, grande grosso modo quanto il Piemonte: si può immaginare che le condizioni siano state più favorevoli che in un paese grande e disomogeneo.
Infine, molti altri aspetti che mi sono sconosciuti.
Il secondo, il ruolo e l’impostazione politica del Fronte di Liberazione e soprattutto, dall’attuale presidente Kagame. Ritorna alla mente l’entrata trionfale nella Kigali liberata del Luglio 1994, alla testa dell’esercito ribelle. In quelle condizioni, Kagame ed il suo partito hanno potuto godere di massima libertà di azione, giustificando qualsiasi decisione con lo spettro della recrudescenza dell’odio tribale. In questa prospettiva, é innegabile che la leadership attuale abbia tratti più autoritari che democratici; e che il governo abbia spesso agito da solo. In effetti, si tratta di una situazione in cui ogni scelta é, in qualche modo, un compromesso. All’indomani delle elezioni del 2003, Amnesty International arrivò a parlare di repressione politica da parte dell’RPF. Più tardi, ancora Amnesty International prese posizione sulle leggi approvate per criminalizzare l’apologia del genocidio, indicando che avevano limitato la libertà individuale, ed erano state usate per zittire il dissenso, anche solo la critica al RPF, e la richiesta di giustizia per le sue vittime di guerra. In vari momenti degli ultimi 20 anni, é stata modificata la costituzione, rimossa l’indicazione della tribù dai documenti d’identità; vietato l’uso sacchetti di plastica; introdotto l’inglese come lingua ufficiale. Spesso, dalla sera alla mattina.
Eppure, per chi guarda alle statistiche sociali ed economiche, i risultati sono innegabili. Come il Ruanda, altri paesi in Africa hanno recentemente raggiunto mete importanti in ambito sociale o economico in condizioni non perfettamente democratiche; nemmeno democraticamente partecipative. Sono argomenti non nuovi per la letteratura economica e politica: alcuni stati, indicati come developmental nations, dimostrano che una solida pianificazione, basata su una visione chiara del futuro e strategie coerenti; un investimento pubblico spesso sostenuto, anche in economia; la determinazione di una classe dirigente illuminata, insieme alle capacità ed ai mezzi a disposizione, hanno potuto di più di altri fattori che si ritenevano più importanti, tra i quali un ambiente perfettamente democratico. Per lo meno, nel breve-medio periodo.
Da 20 anni, ogni anno, il Ruanda celebra la fine del genocidio con 100 giorni di festeggiamenti in tutto il paese. Secondo alcuni, é il momento di finirla: é tempo di digerire il passato e guardare al futuro. Allo stesso modo, aumenteranno le pressioni perché chi ha traghettato il paese fuori dal genocidio si faccia da parte. Probabilmente, questo succederà tanto più tardi, quanto più evidenti saranno le conquiste sociali ed economiche. Ma se e quando questo succederà, la storia incredibile del Ruanda diventerà davvero unica.